Sono tra gli invitati al compleanno di P.
Due anni in meno di noi, ancora un anno alla maturità. Non so bene
dove mi trovo. Non ho un’auto, non ho una patente, non guiderò
mai. Mi hanno scaricato qui in mezzo a tanta gente che conosco appena.
Da qualche parte, in qualche stampa, in qualche diapositiva, nella memoria
di qualche computer, c’è quell’immagine di P. È
in un corteo, al centro della scena e al centro del centro c’é
un dettaglio, per dirla alla Barthes, che con la sua sola presenza modifica
la lettura di quella fotografia. Il punctum è che nel corteo che
procede quasi di corsa solo pochi visi mi sono familiari. E vedo P., con
le braccia aperte, mentre scandisce chissà quale slogan, che regge
nella mano destra un libretto, lo sventola nell’aria. Come si spiegano
quel gesto, quel libretto? Nella foto credo ci sia anche lei, la tenera
G. Non può immaginare che sarà in piazza, qualche anno dopo,
alla prima della Scala e che il rapporto tra le forze dell’ordine
e i manifestanti sarà di tre a uno. La fine del gioco, la dispersione
nell’aria, non solo per effetto dei lacrimogeni. Ai lacrimogeni
e alle cariche violente rispondono le molotov di uno spezzone del corteo
accerchiato. Nel fuggi fuggi generale G. viene travolta e il fuoco divampa
nella pozza di benzina nella quale è caduta. Non potrà mai
dimenticarlo, non potremo mai dimenticarla, non dimenticheremo quel gelido
7 dicembre 1976. Scendere in piazza era stato un generoso tentativo di
suicidio.
Sei mesi dopo, spunteranno le armi. Sono al compleanno di P., in un limbo
tra la maturità e l’università. Avere vent’anni.
Non so cosa vorrei fare, so che non potrò farlo. Prima il Mogadon
preso con due sorsi di superalcolico. Adesso è la musica a stordire.
Questa ragazza a fianco sul divano è una perfetta sconosciuta.
A prima vista, una di quelle ragazze della buona, vorrebbe essere alta
borghesia, spesso belle, curate, prevedibili. Non parlano che di sé,
quando non lo fanno è per informarti dell’ultima prodezza
della loro stravagante sorella. Siamo a poche centinaia di metri da una
di quelle superstrade dove scorre una parte sempre più importante
del prodotto interno lordo, si celebra il miracolo italiano, s’immagina
che durerà in eterno. D’istinto mi getterei a capofitto in
mezzo al traffico, proverei ad attraversare le corsie per vedere l’effetto
che fa. (“Buttarsi nel vuoto da finestre di grattacieli da pareti
in montagna da ponti in ferro sospesi dalla Tour Eiffel deve essere una
esperienza indimenticabile”).
Lo confesso e lei mi dice che è una delle prime soluzioni alle
quali pensa chi pensa concretamente al suicidio. E lo dice con una complicità
che mi sorprende. Siamo a una festa di compleanno. (Non ci sarà
poi molto da festeggiare negli anni a venire).
Un’assemblea di sogni infranti, un parquet di cocci aguzzi che lasceremo
in eredità a un paio di generazioni seguenti, il testimone passato
nelle loro mani come in una staffetta. Perché siamo così
disperati? Perché mi chiede d’improvviso: “Pensi che
avresti il coraggio di uccidermi, se ti chiedessi di farlo?”. È
solo per il piacere di provocare? Quanti compleanni festeggerà
ancora P.? Quanti anni dopo si toglierà la vita so dove e come,
non saprò mai perché? Non lo chiederò a chi potrebbe
sapere, ora che anche G. si è sfilato dal fondo del corteo per
chiudere gli occhi in un inospitale ospedale africano. Sì, leggevamo
Rimbaud. Certo, amavamo Gauguin. Di sicuro, sognavamo di “vivere
d’estasi, di calma e d’arte, circondati da una nuova famiglia,
lontano dalla lotta europea per il denaro. Finalmente liberi”. |