Non sarò il primo ad aver reagito con
rabbia a una diagnosi che richiederebbe un trapianto, se fossi più
giovane o in alternativa l’impianto di un Vad, una specie di cuore
artificiale da aggiungere al defibrillatore. Suggerisco che si potrebbero
collocare tra le batterie che tengono in vita il Vad che tiene in vita
il paziente, cariche di esplosivo da utilizzare dopo aver individuato
un obiettivo significativo. Mi trasformo in un paziente per così
dire radicalizzato, senza passare per una conversione all’Islam.
Primario e medici al seguito fingono di non aver sentito. Sono passati
otto mesi difficili. Mia moglie sapeva tutto dal primo giorno, io sospettavo
vedendo solo piccoli progressi. Jean Luc Nancy, filosofo francese del
quale ignoravo l’esistenza, scomparso nel 2021, aveva subito nel
1992 un trapianto di cuore. L’unico a sconsigliarlo al grande passo
era stato il nostro Agamben, che avrebbe goduto di improvvisa popolarità
per le dure posizioni prese all’esordio della pandemia. Tra le tante
opere di Nancy, sfoglio le pagine de L’intruso.“La questione
non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi il cuore,
ma che questa apertura non può essere richiusa. (Del resto ogni
radiografia lo mostra, lo sterno è ricucito con pezzi di filo di
ferro ritorti). Io sono aperto chiuso. C’è in me un’apertura
attraverso la quale passa un flusso incessante di estraneità: i
farmaci immunodepressori e gli altri che servono a combattere alcuni effetti
detti secondari, le conseguenze inevitabili (come il deterioramento dei
reni), i ripetuti controlli, tutta l’esistenza posta su un nuovo
piano, trascinata da un luogo all’altro. La vita scannerizzata e
riportata su molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità
di morte. Sono dunque io stesso che divengo il mio intruso, in tutti questi
modi che si accumulano e si oppongono”. Trasformo e aggiorno a mio
uso e consumo l’introduzione al volumetto, meno di cinquanta pagine.
Che ne è dell’io, che ne è di un io, se nel mio petto
batte un cuore non cuore? Che cos’è il mio corpo, se la continuità
della sua esistenza, se la sua sopravvivenza, è affidata a un intruso?
Che cosa è un corpo quando entra nel regno della biopolitica? Un
uomo che va a pile. Lo immagino su un poster sei metri per tre, incollato
in città negli appositi spazi. Che senso ha snocciolare questa
sintesi ad effetto nei miei ormai stucchevoli show dal letto che occupo
così frequentemente in una delle camere di questo ospedale? Quando
dovrei invece ringraziare mille volte l’equipe che mi accompagna
in un piccolo calvario, una storia di ospedalizzazioni e riospedalizzazioni
della quale la fine è ben nota. In certi giorni, certe notti, vien
voglia di accelerare i tempi, sfogliare l’ultima pagina. Preghiera.
“Signore liberaci dal troppo zelo per le novità; dall’anteporre
la cultura alla saggezza; la scienza all’arte; l’intelligenza
al buon senso; dal curare i malati come se fossero malattie; dal rendere
la guarigione più penosa del persistere del morbo ». Sir
Jonathan Hutchinson, Londra 1904 |