Gennaio 2021
   IN EXTREMIS    
 
Dicembre 2011
Prima del funerale, molto prima della cremazione, due giorni dopo Natale, sono sulla soglia di questo obitorio all’interno del Pio Albergo Trivulzio, carico di storia e di ambrosianità, la Baggina. Ci sono tre bare aperte, al centro quella che dovrei guardare con più attenzione e commozione, l’ultimo saluto e tutto il resto. Non so per quale motivo i corpi scheletrici hanno una specie di sottogola. Un attrezzo che parte da dove non voglio sapere e sostiene il capo in una posizione fissa come per esaltarne l’esposizione e invece sembra rendere necessario un ultimo sgradito sforzo, prima di riposare in pace. Eppure questo salone buio e dall’intonaco annerito rende più sopportabile il ricordo di un altro faccia a faccia, assolutamente imprevisto quando sei ancora sui banchi di scuola. In qualche curva di qualche anonimo paese dell’hinterland, un urto spalanca una portiera e un corpo viene sbalzato fuori. Il camion che sopraggiunge non farà in tempo ad evitarlo. La nostra cara amica è così pallida, porcellana sulla bianca lastra di marmo, in un pomeriggio di una piovosa domenica, al suo fianco un ragazzo ancora più ragazzo di noi, alla prima corsa felice, cavalcando il suo motorino fiammante tanto desiderato. Si chiamava caritativa o qualcosa del genere, l’abitudine di visitare la domenica mattina qualche periferia disagiata dove aspettavano gruppi di bambini irrequieti o quel quartiere di case minime, chiuso da un cancello, dove l’odore acre della povertà non potevi confonderlo con nient’altro e la messa di Natale ricordava quella di un villaggio del Sertão, le preghiere, la speranza contro ogni realtà. Al Sacra Famiglia di Cesano Boscone, dove gli oligofrenici con lo sguardo perso e le dita a uncino, appesi alle reti, si mescolavano a tanti altri dei quali era difficile ricostruire la storia e il vero motivo per il quale erano finiti lì, si giocava in un ben tenuto campetto ai bordi della struttura. E gli ospiti si scambiavano sguardi imbarazzati quando a volte la partita veniva interrotta per permettere a una barella cigolante, con un lenzuolo a coprire sommariamente il tutto, di attraversare il campo e raggiungere la cappella mortuaria. Poi si ricominciava subito l’incontro, come se un arbitro invisibile avesse riaperto con il suo fischietto le ostilità. Ma cosa molto sgradevole era anche la prima colazione in quella colonia della Caritas a Sarzana che divenne poi dell’Olivetti, una bella costruzione dai bordi tondeggianti circondata dalla pineta, simile a un battello, con le sue tazze d’acciaio dove la sera prima avevano servito il minestrone o la pasta al pomodoro e qualche strano gusto si mischiava sempre al latte e al caffè, rendendo il tutto una piccola tortura quotidiana. Non so come fossi finito una volta in un seminario per gli esercizi spirituali, full immersion prolungata nella preghiera, quale menu fosse servito, sicuramente diverso da quello di casa e il senso di nausea che ne derivava veniva ingigantito, durante la passeggiata pomeridiana in mezzo al bosco, da decine di lumaconi arancioni, senza guscio e senza pudore, lunghe strisce di bava iridescente sotto il sole. Per anni ho pensato di aver solo sognato la carriola che portava in mezzo alla folla di Delhi quel giovane del quale spuntava la testa su una specie di vassoio e al posto del collo come dei filamenti e lui oscenamente strizzava l’occhio se fermavi il tuo sguardo nel suo a confermarti che era vivo e vegeto. Non era poi così sorprendente, a notte fonda, trovarsi nel momento topico, in un contesto tipico, tra Testori e Visconti. Una donna matura sta con le braccia in croce poggiata alla siepe, instabile, un uomo dietro di lei, come incollato. E si allunga il passo e si cancella la brutalità della situazione, se non fosse che qualcuno poco più avanti ha abbandonato in mezzo alla strada un gran pezzo di carne ormai putrefatta e tutto l’insieme prende un contorno sinistro. Trovavo invece così sincero il racconto dell’amico con la ragazza egiziana e la Guinness aggiunta al burro, la tenerezza sconosciuta nel film più censurato di sempre e allora saltava fuori il collettivo delle vivaci ragazze californiane, la loro scoperta che il contenuto di una flute di champagne che attraversa le pareti intestinali moltiplica più volte l’effetto: via ogni inibizione, i cerchi alla testa, l’amaro in bocca e il peso sullo stomaco. Momenti di autocoscienza come li chiamavamo allora, confessandoci cose più o meno inconfessabili, nella troppo breve stagione nella quale donne e uomini combattevano insieme sulle barricate dell’amore. Ma ho fatto qualcosa di molto sgradevole, fissando quel gruppo di ragazze afgane, a dividerci il Kabul quasi in secca disseminato di scorze di melone spremuto, insistendo per qualche secondo di troppo. Quale sfida mi ero inventato, quali regole secolari volevo ingenuamente sovvertire?
È l’estate dei miei diciotto anni, una tranquilla sera di settembre, stanchi ma finalmente seduti ai grandi tavoli di un ristorante di Agra, le tovaglie che brillano, le poltrone nelle quali si sprofonda dolcemente come avessimo avuto mousse di afgano nero sui crostini per antipasto. Siamo un bel gruppo e così sul vassoio c’è un imponente taglio di roast beef al sangue. Il tè fumante al gelsomino è servito da una teiera d’argento, i candidi fiori bene in vista nel filtro. Due, tre camerieri in livrea sovraintedono l’avvicendarsi delle portate. La musica indiana dal vivo, rilassa. Dulcis in fundo, la crostata di pere intrisa del suo denso succo, tanto amata da Her Majesty the Queen che aveva cenato qui qualche tempo prima e alla parete un quadretto ricordava l’illustre ospite.“La vita è una tragedia in primo piano, una commedia vista in campo lungo”.
 

 

   
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