Prima del funerale, molto prima della cremazione,
due giorni dopo Natale, sono sulla soglia di questo obitorio all’interno
del Pio Albergo Trivulzio, carico di storia e di ambrosianità,
la Baggina. Ci sono tre bare aperte, al centro quella che dovrei guardare
con più attenzione e commozione, l’ultimo saluto e tutto
il resto. Non so per quale motivo i corpi scheletrici hanno una specie
di sottogola. Un attrezzo che parte da dove non voglio sapere e sostiene
il capo in una posizione fissa come per esaltarne l’esposizione
e invece sembra rendere necessario un ultimo sgradito sforzo, prima di
riposare in pace. Eppure questo salone buio e dall’intonaco annerito
rende più sopportabile il ricordo di un altro faccia a faccia,
assolutamente imprevisto quando sei ancora sui banchi di scuola. In qualche
curva di qualche anonimo paese dell’hinterland, un urto spalanca
una portiera e un corpo viene sbalzato fuori. Il camion che sopraggiunge
non farà in tempo ad evitarlo. La nostra cara amica è così
pallida, porcellana sulla bianca lastra di marmo, in un pomeriggio di
una piovosa domenica, al suo fianco un ragazzo ancora più ragazzo
di noi, alla prima corsa felice, cavalcando il suo motorino fiammante
tanto desiderato. Si chiamava caritativa o qualcosa del genere, l’abitudine
di visitare la domenica mattina qualche periferia disagiata dove aspettavano
gruppi di bambini irrequieti o quel quartiere di case minime, chiuso da
un cancello, dove l’odore acre della povertà non potevi confonderlo
con nient’altro e la messa di Natale ricordava quella di un villaggio
del Sertão, le preghiere, la speranza contro ogni realtà.
Al Sacra Famiglia di Cesano Boscone, dove gli oligofrenici con lo sguardo
perso e le dita a uncino, appesi alle reti, si mescolavano a tanti altri
dei quali era difficile ricostruire la storia e il vero motivo per il
quale erano finiti lì, si giocava in un ben tenuto campetto ai
bordi della struttura. E gli ospiti si scambiavano sguardi imbarazzati
quando a volte la partita veniva interrotta per permettere a una barella
cigolante, con un lenzuolo a coprire sommariamente il tutto, di attraversare
il campo e raggiungere la cappella mortuaria. Poi si ricominciava subito
l’incontro, come se un arbitro invisibile avesse riaperto con il
suo fischietto le ostilità. Ma cosa molto sgradevole era anche
la prima colazione in quella colonia della Caritas a Sarzana che divenne
poi dell’Olivetti, una bella costruzione dai bordi tondeggianti
circondata dalla pineta, simile a un battello, con le sue tazze d’acciaio
dove la sera prima avevano servito il minestrone o la pasta al pomodoro
e qualche strano gusto si mischiava sempre al latte e al caffè,
rendendo il tutto una piccola tortura quotidiana. Non so come fossi finito
una volta in un seminario per gli esercizi spirituali, full immersion
prolungata nella preghiera, quale menu fosse servito, sicuramente diverso
da quello di casa e il senso di nausea che ne derivava veniva ingigantito,
durante la passeggiata pomeridiana in mezzo al bosco, da decine di lumaconi
arancioni, senza guscio e senza pudore, lunghe strisce di bava iridescente
sotto il sole. Per anni ho pensato di aver solo sognato la carriola che
portava in mezzo alla folla di Delhi quel giovane del quale spuntava la
testa su una specie di vassoio e al posto del collo come dei filamenti
e lui oscenamente strizzava l’occhio se fermavi il tuo sguardo nel
suo a confermarti che era vivo e vegeto. Non era poi così sorprendente,
a notte fonda, trovarsi nel momento topico, in un contesto tipico, tra
Testori e Visconti. Una donna matura sta con le braccia in croce poggiata
alla siepe, instabile, un uomo dietro di lei, come incollato. E si allunga
il passo e si cancella la brutalità della situazione, se non fosse
che qualcuno poco più avanti ha abbandonato in mezzo alla strada
un gran pezzo di carne ormai putrefatta e tutto l’insieme prende
un contorno sinistro. Trovavo invece così sincero il racconto dell’amico
con la ragazza egiziana e la Guinness aggiunta al burro, la tenerezza
sconosciuta nel film più censurato di sempre e allora saltava fuori
il collettivo delle vivaci ragazze californiane, la loro scoperta che
il contenuto di una flute di champagne che attraversa le pareti intestinali
moltiplica più volte l’effetto: via ogni inibizione, i cerchi
alla testa, l’amaro in bocca e il peso sullo stomaco. Momenti di
autocoscienza come li chiamavamo allora, confessandoci cose più
o meno inconfessabili, nella troppo breve stagione nella quale donne e
uomini combattevano insieme sulle barricate dell’amore. Ma ho fatto
qualcosa di molto sgradevole, fissando quel gruppo di ragazze afgane,
a dividerci il Kabul quasi in secca disseminato di scorze di melone spremuto,
insistendo per qualche secondo di troppo. Quale sfida mi ero inventato,
quali regole secolari volevo ingenuamente sovvertire?
È l’estate dei miei diciotto anni, una tranquilla sera di
settembre, stanchi ma finalmente seduti ai grandi tavoli di un ristorante
di Agra, le tovaglie che brillano, le poltrone nelle quali si sprofonda
dolcemente come avessimo avuto mousse di afgano nero sui crostini per
antipasto. Siamo un bel gruppo e così sul vassoio c’è
un imponente taglio di roast beef al sangue. Il tè fumante al gelsomino
è servito da una teiera d’argento, i candidi fiori bene in
vista nel filtro. Due, tre camerieri in livrea sovraintedono l’avvicendarsi
delle portate. La musica indiana dal vivo, rilassa. Dulcis in fundo, la
crostata di pere intrisa del suo denso succo, tanto amata da Her Majesty
the Queen che aveva cenato qui qualche tempo prima e alla parete un quadretto
ricordava l’illustre ospite.“La vita è una tragedia
in primo piano, una commedia vista in campo lungo”. |