Ho letto Tristi Tropici a Zante, in una casa
prossima alla spiaggia di Gerakas, dove all’alba si schiudono le
uova delle tartarughe Caretta Caretta e tutte insieme le piccole, tracciando
binari nella sabbia, raggiungono l’acqua. Nei lunghi pomeriggi estivi
la piccola, tre anni compiuti da poco, riposava dopo un’intensa
mattinata al mare. Eravamo immersi nel sole, in una natura entusiasta
di stupirci, nel silenzio rotto soltanto dalle cicale e a notte fonda
dalle urla di giovani in gran parte inglesi, periferici e proletari, di
ritorno dall’unica discoteca. Quando un amico mi parlò in
una mail del suo amore esclusivo per i gatti, gli feci notare che nelle
ultime righe del saggio e memoriale di Lévi-Strauss, proprio un
gatto diventa protagonista di un magico momento di tenerezza e complicità.
Scaricai il libro e gli inviai quell’ultima pagina. Ma nella stessa
mail, avevo allegato un secondo testo, quello del noto aforisma che chiude
la seconda parte di Minima Moralia: Sur l’eau. F.H, grafico e art
director con il quale ho condiviso le ore più gradevoli nelle agenzie
di pubblicità, d’estate si trasferisce in un piccolo chalet
sul lago di Brienz con vista gratuita sulla Jungfrau. Decisi di inviare
anche a lui l’aforisma, naturalmente in tedesco, per semplificare
una lettura non del tutto agevole. Tutto questo girare in tondo ha un
senso: preparare a una scoperta assolutamente inaspettata. Come scrive
Steiner, parlando del canone d’eccellenza del padre: “davanti
a un Omero, a un Goethe, a un Beethoven, i minori sono proprio minori”.
E nessuno, con tutta la libertà che si vuole concedere alle personali
opinioni, potrebbe collocare Lévi-Strauss e Adorno tra i minori.
“Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato
nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà
un mondo – questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile
resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra
schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura
all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino;
trattenere l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra
le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua
opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte
le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro
regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono
i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà;
possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste
– addio selvaggi! addio viaggi! – durante i brevi intervalli
in cui la nostra specie sopporta d’interrompere il suo lavoro da
alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e
continua a essere, al di qua del pensiero e al di là della società;
nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre
opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel
cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza,
di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria
permette a volte di scambiare con un gatto.”
Questo è Lévi-Strauss. “Forse la vera società
proverà disgusto dell’espansione e lascerà liberamente
inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un
folle assillo, alla conquista delle stelle. Ad un’umanità
ignara dell’indigenza balenerà qualcosa della follia e dell’inutilità
di tutti i provvedimenti che erano stati presi per sfuggire all’indigenza,
e che, con la ricchezza, la riproducevano su più vasta scala. Lo
stesso godimento sarebbe toccato da questa trasformazione, dal momento
che il suo schema attuale è inseparabile dal darsi da fare, pianificare,
ottenere quel che si vuole e sottomettere gli altri.“Rien faire
comme une bête”, giacere sull’acqua e guardare tranquillamente
il cielo, “essere e nient’altro, senz’altra determinazione
e realizzazione”, potrebbero sostituire processo, azione e compimento,
e adempiere così sul serio alla promessa della logica dialettica,
di sfociare nella propria origine. Tra i concetti astratti, nessuno si
avvicina all’utopia realizzata più di quello della pace perpetua”.
Questo è Adorno. L’idea che due giganti, durante o poco dopo
una catastrofica guerra mondiale, l’atrocità di una bomba
atomica, l’orrore dei lager, le persecuzioni, la fuga negli Stati
Uniti per trovare un rifugio (non basterà certo a Adorno utilizzare
il cognome non ebreo della madre per essere al sicuro), arrivino a riflessioni
così ricche di assonanze, accomunate dalla stessa tensione utopica
e profetica, alla certezza che le grandi speranze sul destino dell’umanità
restino in qualche modo verosimili, è di conforto nella miseria
della nostra attualità. Non si può uscire da questa doppia
lettura senza provare una forte commozione, non soltanto cerebrale. |