Solo ora vengo a sapere che il mio caro amico
G. è morto in Madagascar di Covid. La sua piantagione di moringa,
superfood del nuovo millennio, non aveva dato i frutti sperati.Viaggiava
verso sud da Ambilobe per trovare un altro campo dei miracoli. Il suo
percorso, come si dice oggi, è sempre stato accidentato. Quando
si ritirano, le grandi mareggiate lasciano devastazione e detriti sulla
spiaggia. Avevamo studiato insieme per diventare agenti di viaggio e lui
lo diventò a suo modo, poco dopo la maturità. La prima mossa
fu portare, da una breve puntata in Oriente, grandi quantità di
morfina e cercare di rivenderla quasi per gioco, pensando di non trovare
dietro l’angolo le minacce di morte degli spacciatori professionisti.
Il seguito dell’avventura è in parte nelle lettere dei primi
anni settanta che ho conservato. Da Kabul. Da Kathmandu. Da Bangkok. Da
Bombay, dove aveva in programma di tornare, nel quartiere di Colaba, per
raccontare la vita vissuta, le storie di naufragi e di follie, di candele
e siringhe, nelle stanze di piccoli hotel per junkies. Da Agelat, nel
deserto libico, dove in jeep trasportava avanti e indietro da Tripoli
gli operai di una grande azienda italiana, da tempo morta e sepolta. Da
Gavirate, sulle sponde del lago di Varese, dove don Gino Rigoldi l’aveva
parcheggiato con altri ospiti, nella villa di un ingegnere dell’Euratom,
dotata di uno sconfinato giardino e decine di pregiate bottiglie in cantina.
E da dove fu prudenzialmente allontanato per spaccio di muffa bianca dei
muri, scientificamente nitrato di potassio, prima che gli infinocchiati
potessero dargli una lezione. Aveva ricevuto in dono molti talenti e un
talento unico per dissiparli. Non posso dimenticare le tante domeniche
d’inverno a Brera, nel porto sicuro di un bar dove il tè
veniva servito con più fettine di limone, il cucchiaino era integro,
il bagno discretamente posizionato. Ci voleva il limone per sciogliere
la dose, e anche cucchiaini sani, mentre in molti bar erano stati bucati,
proprio per renderli inutilizzabili. Il mio aspetto di bravo ragazzo di
famiglia cattolica osservante, orfano di padre, caricato di pesanti responsabilità
dall’adolescenza, in un certo modo garantiva che la lunga visita
in bagno fosse innocente, almeno così mi piaceva pensare per tranquillizzarmi.
Altre domeniche prendevano tutta un’altra strada, verso una piazza
molto periferica, dopo aver sfilato dal comò, sotto gli occhi comprensivi
di mia mamma, una banconota che avrebbe pagato il taxi andata e ritorno
e qualcosa in più. In quel tempo, G. viveva in un appartamento
di proprietà di un cugino, ignaro di tutto. Scostando le tende,
l’imponente Arco della Pace, landmark di una zona che sarebbe poi
diventata un nuovo centro della movida milanese, si poteva quasi toccare
con un dito. Passavamo insieme anche lunghi pomeriggi e serate e nottate
nella casa di un altro amico, della sua compagna e della loro bambina.
Grazie al cielo, loro sono atterrate sane e salve su un altro pianeta.
Non il nostro amico, avvolto nel fuoco, suicida nel porto di Ancona, decenni
prima che il Covid portasse via G. Ricordo bene di averlo perso di vista
dopo quella serata passata nella casa di un figlio di Gian Carlo Pajetta,
uno dei pochi che nel ruolo di dirigente comunista aveva conservato i
suoi lati10 umani: passione, intelligenza, gusto per le battute sarcastiche,
un uomo in grado di rendere potabili anche le soporifere trasmissioni
di Tribuna Politica. Ascoltavo rievocare una lunga cavalcata verso Mazar-i
Sharif, fare la conta di quelli che erano tornati per così dire
dall’esilio, dopo mesi o per qualcuno anni. L’invasione russa
in Afghanistan e l’avvento al potere dell’ayatollah Komeyni
in Iran avevano reso impossibile seguire la rotta del Grande Viaggio.
A fine serata, fummo interrotti dalla telefonata da Parigi della compagna
del nostro ospite.Trovai singolare, quasi fuori posto, che lei lavorasse
per Club Med, ma non si capiva quale ruolo recitasse nell’industria
del turismo. E dopotutto:“Un soggiorno in un villaggio del Club
Med può rivelarsi un’esperienza indimenticabile. Mentre ci
si allontana lentamente dalla riva, in una notte di mare calmo, su una
barca a remi, dopo averlo dato alle fiamme”. A volte mi chiedo dove
G. abbia trovato il coraggio e la pazienza per lavorare a Milano quindici
anni filati in una compagnia aerea, mantenere una famiglia, due figlie,
costruirsi una pensione più che d’oro, almeno per gli standard
dell’isola nella quale era approdato e dove avrebbe aggiunto altri
figli e figlie al conteggio, un totale di cinque o sei alla fine. Ho cercato
e ritrovato uno degli ultimi scambi di messaggi.“Andava tutto bene
al lavoro. Il pericolo erano le sedute alcoliche dopolavoro. Pane nero,
caviale, cetriolini, vodka, canti tradizionali e pianti. Mi sentivo intrappolato
nell’alcool, perdevo colpi e ho deciso di partire. Un racconto ricorrente
nel dopolavoro era quello del bicchiere della staffa che in realtà
sono tre. Il primo quando il cosacco parte per la guerra, monta a cavallo
e appunto infila il piede nella staffa. Il secondo quando raggiunta la
collina (i villaggi cosacchi erano sempre costruiti negli avvallamenti)
si volta per un ultimo saluto, il terzo quando scompare all’orizzonte”. |