Gennaio 2021
   IN EXTREMIS    
 
Ottobre 2023
Più di una ventina di anni fa, in molte zone di Milano si captava perfettamente il segnale della TV della Svizzera Italiana. Un lunedì sera siamo capitati per caso sul primo documentario di una serie che sarebbe continuata a lungo. Eravamo soli sul divano, io e Bibo (cosi l’ho chiamata da subito, adottando il nomignolo affettuoso utilizzato da suo figlio che aveva meno di cinque anni quando ci siamo incontrati). Non in anticipo sui tempi, il tema del primo documentario era quello dell’alimentazione. La differenza la faceva l’approccio, una spietata denuncia che non sarebbe stata ammessa su un canale televisivo italiano. Si cominciava con scarti di carne che venivano magicamente accostati l’uno all’altro con una tecnologia che permetteva il formarsi di sottili e invitanti venature di grasso, rendendo il tutto perfettamente credibile. Più avanti si potevano vedere le fasi della produzione dei gamberetti in Thailandia. La buca e la pozza d’acqua strappata alla terra fertile, resa per sempre inutilizzabile dalla quantità di sostanze introdotte nello stagno per accelerare la crescita, per finire con gli antibiotici. Subito a fianco, abbandonata la prima, un’altra buca veniva aperta, un’altra pozza grigiastra deturpava la campagna. Ogni lunedì, non mancavamo all’appuntamento. Ricordo le lunghe confessioni e le vite deragliate dei militari del contingente olandese che avrebbe dovuto proteggere l’area nella quale avvenne il massacro di Srebenica, poi definito genocidio dalla Corte internazionale di giustizia. E ancora il viaggio di un fotografo all’interno della smisurata Cina. Le madri che per lavoro lasciano i figli a migliaia di chilometri di distanza per rivederli dopo un anno o più, il minatore che affonda il viso in un secchio d’acqua di sorgente che diventa subito torbida come se qualcuno avesse versato dentro un bicchiere di nero di seppia. Ma un ricordo indelebile lo hanno lasciato i lavori firmati da Yoav Shamir, israeliano di Tel Aviv che non a caso ha svolto il servizio militare nei territori occupati. Flipping out racconta le storie di ragazzi e ragazze che approfittano di una specie di liquidazione prevista dall’esercito a fine leva per rifugiarsi nell’India più verde e nelle droghe più o meno pesanti, fino al punto da rendere necessario il sostegno di psicologi dell’esercito appositamente addestrati. Nei casi più gravi, un aereo militare li riporta a casa. Davvero indimenticabile tra tutti è Checkpoint, sempre di Yoav Shamir. Documenta il quotidiano incubo vissuto dai cittadini palestinesi e di riflesso anche dai giovani soldati israeliani, chiamati a filtrare le persone una ad una, dalle prime luci dell’alba fino a notte fonda, quasi a scoraggiare ogni tentativo di passaggio. Preghiere insistite o disperate non vengono ascoltate quando vige il coprifuoco, anche se si tratta di raggiungere un anziano padre morente o di accompagnare moglie e figlio in ospedale. Non si può non intuire la paura dei giovani militari di attentati assai improbabili. “I terroristi non passano dai checkpoint!” urla un uomo in una delle mille code che si formano, sotto il sole o sotto la pioggia incessante, rallentate dal controllo scrupoloso dei permessi. Sono ragazzi alle prime armi, la gran parte dei militari, attenti a rispettare scrupolosamente gli ordini ricevuti, in qualche caso orgogliosi del loro ruolo e della loro inflessibilità. “Quando arrivano i palestinesi, comincia il nostro show!”. La comparsa di un pastore come garanzia per il passaggio di uno scuolabus più volte fermato, apre a un imprevisto cambio d’atmosfera. “I bambini devono passare, fermarli così è una cosa triste”. “E lei non è triste per me che devo stare qui?”, risponde il giovane soldato con un sorriso. Alla fine si faranno fotografare insieme, senza armi, giubbotti e senza caschi di mezzo, per ricordare quell’incontro cosi particolare. Non la scienza, non la tecnica, non la cultura, non la bellezza, non la follia, non la saggezza: l’umanità salverà l’umanità. Ci sono voluti due anni per raccogliere il materiale che sembra a tratti girato all’insaputa dei protagonisti e forse in piccola parte lo è. Invidio chi ha opinioni precise e definitive su questa come su altre tragedie. Forse perché, dopo dieci anni, non posso dire di avere le idee del tutto chiare su un’altra vicenda che in fondo mi coinvolge da molto vicino, vivendo in un piccolo borgo di confine dove la minoranza slovena è maggioranza e al limitare del bosco sorge il quartiere delle case per i profughi istriani. La storia! Leggila e piangi! L’ha scritto Kurt Vonnegut, prigioniero alleato a Dresda, vivo perché aveva trovato rifugio in una grotta sotto il mattatoio, mentre la città veniva bombardata fino ad essere rasa al suolo e diventare tomba per decine e decine di migliaia di uomini, donne e bambini.
 

 

   
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