Lo scompenso mi vuole ricompensare? C’era
una volta una ciotola sulla quale erano incise scritte in arabo. Nella
ciotola, c’era una misbahah e i suoi grani da lasciar scorrere tra
le dita, dopo la preghiera. In fondo alla ciotola, per mezzo secolo, ha
riposato una piccola tavoletta di quelle sulle quali i fedeli posano la
fronte dopo essersi prosternati, chiamate turbah, spesso in argilla della
terra di Karbala, in Iraq. Ci voleva un piccolo miracolo per dare un senso
a cinquant’anni di vita, sul fondo di una ciotola. Si diventa più
sensibili e riconoscenti e condiscendenti e solidali e compartecipi ed
empatici e benevoli e longanimi e indulgenti e comprensivi e tolleranti
quando si entra per un ricovero di routine e si finisce in terapia intensiva.
Tornato nella camera, trovo un nuovo vicino di letto. Mi accorgo che avremo
solo piccoli ritagli di tempo per conoscerci: la gran parte della giornata
è dedicata alle abluzioni e alla preghiera, dal risveglio alla
tarda serata. Mohamed non è iraniano, come pensavo, ma iracheno.
Musulmano, scita e nato vicino a Kerbala. La testa china sul tavolino
dove poggia il vassoio di colazione, pranzo e cena, la fronte su un tablet
e tutto questo si ripeterà più volte al giorno. Chiede frutta,
pesche, banane e poi datteri, procurati subito da un’infermiera.
Sulla confezione c’è una grande etichetta Israel e così
rimangono in un cassetto. Una notte insonne, penso che non per caso il
turbah è rimasto in fondo a quella ciotola per mezzo secolo: aspettava
Mohamed. Al momento delle dimissioni, saluto, ma torno subito in camera
con una piccola custodia in seta rossa, nella quale è infilato
il turbah. Solo dopo qualche secondo Mohamed si rende conto, e posso capirlo,
perché a quattromila chilometri da casa puoi aspettarti di tutto,
tranne che un infedele, per quanto gentile, possa portare in dono un turbah.
Lo bacia, lo appoggia sulla fronte e quando esco vedo che lo infila sotto
la camicia e lo fa scivolare verso il cuore. Ricordo che il turbah viene
dall’Iran e precisamente da Yazd. Città ai margini del Grande
deserto salato, visitata da Marco Polo: “Anche Jasdi è una
città persiana bella e nobile e di grandi commerci. Chi vuole partire
da queste terre e procedere oltre, cavalca per sette giorni sempre in
pianura e trova solo tre luoghi abitati dove è possibile fermarsi.
Ma ci sono anche, e spesso, deliziosi boschetti di palme che si possono
percorrere a cavallo e sono ricchi di cacciagione di bosco, pernici e
coturnici che piacciono molto ai mercanti in viaggio per quei ridenti
luoghi. E ci sono bellissimi asini selvatici”.Yazd, patrimonio dell’umanità,
che starebbe di diritto tra le Città Invisibili di Calvino, tra
le più amate dagli stessi iraniani, forse per il prodigioso salto
indietro nel tempo che riesce così spontaneo tra le sue mura di
argilla, sabbia e paglia. Prima e dopo Yazd, per decine di chilometri,
c’era il nulla del nulla. Ma nel nulla, mi indicano una casupola
e in una stanza spoglia, a gambe incrociate davanti alla brace, c’è
un uomo che senza una parola, prende un impasto, lo inforna, ci rompe
sopra un uovo e infine mi porge un grande pane tondo. “Buoni pensieri,
buone parole, buone opere”. Il culto zoroastriano, qui praticato
da millenni, si riassume in un solo comandamento. E andando nel sole che
abbaglia, nella gloria del disteso mezzogiorno, torno in vertiginosa solitudine
alle macchine dei miei compagni di viaggio. Felice. “Tutte queste
bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre
città. Ma la proprietà di questa è che a chi vi arriva
una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade
multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie,
e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, viene da invidiare quelli
che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa
e d’esser stati quella volta felici”. |