Mi ricordo che di tanto in tanto spuntava
fuori come un fungo dalla tivù uno scrittore di un certo successo,
successo inversamente proporzionale alla qualità delle sue opere.
Invariabilmente si finiva a parlare di una pratica della quale pareva
avesse l’esclusiva. Si trattava di abbracciare forte forte il
tronco di un maturo albero e ricavarne così una carica di energia
oltre che un rapporto intimo con la natura. Il comprensibile desiderio
di affascinare potrebbe essere il principale motivo che ha spinto Massimiliano
d’Austria a immaginare e poi creare il castello e il parco di
Miramare a Trieste. Se si entra dall’alto, dal cancello sulla
collina, si viene accolti da esemplari unici di alberi di ogni parte
del globo, come quadri ad un’esposizione. E se anche il cedro
del Libano, per dirne uno, sembra il più grande che abbiate mai
visto dal vero o in fotografia, è alla sequoia che ci si ferma.
È un primo pomeriggio di un giorno qualsiasi, ma proprio un giorno
di quelli nei quali si fanno cose come riordinare una libreria, cucinare
due uova, lasciarsi andare sul divano, passeggiare. I momenti che sognava
di rivivere chi aveva provato il dramma dei campi di concentramento
ed è una grande lezione per chi come me invece sogna una rivoluzione
continua della vita quotidiana. Oggi sono libero e libero è anche
questo angolo del parco. Sono solo e posso abbracciare in pace la mia
sequoia o almeno quanta riesco a stringerne tendendo al massimo le braccia.
L’effetto è una poderosa spinta verso il basso che mi fa
sprofondare oltre le radici, fin nelle viscere della terra. Accetto
l’invito, precipito e mi fermo a 800 metri sotto il livello del
mare, sotto i boschi della Croazia, alla sorgente dell’acqua Jana.
Farmaci a parte, un rigido protocollo da rispettare ora per ora, lo
scompenso cardiaco acuto impone di controllare i liquidi che i diuretici
andranno ad eliminare. Si deve resistere: un litro d’acqua nel
quale includere anche quella di frutta, verdura, tè, ogni tipo
di bevanda, è il limite invalicabile. Io invece cedo e bevo alla
sorgente Jana una capace coppa di questa acqua così ricca di
minerali in perfetto equilibrio. Bevo e brindo a tutte le acque del
mondo a cominciare dalla Jannica 1828, sorella della Jana. Dico grazie
alle terme slovene per le loro fonti, non dico di no a un bicchierino
di Donat Rogaska, regina del magnesio, a un calice di Radenska che aveva
già nell’etichetta i tre cuori scarlatti quando troneggiava
sul grande tavolo davanti a Josip Broz Tito, abile oratore. Inebriato,
stappo una bottiglia annata 1984 della spettacolare, amabile e salutare
Agua de Porto Santo, isoletta persa nell’Atlantico dove si dice
sia nato o morto o ambedue le cose Cristoforo Colombo. Nove chilometri
di spiaggia, illo tempore senza ombrelloni, sdraio, lettini, teli, la
luna così vicina che esserci arrivati non ti pare poi un grande
passo per l’umanità. Mi arrendo davanti a una scontata
Perrier pétillant che sorseggio e come per incantamento vengo
preso e posato in una double luxury suite parigina dove pensare a lei,
cioè a lei e lei, perché essere mancino è una condanna
pare, figurarsi se sei anche gemini gemini, geminiano... “Gli
uomini mancini sono meno attivi e hanno bisogno di molto amore e di
più di una donna nella loro vita, anche quando sono sposati potrebbero
continuare a pensare ad altre donne”. E anche pensare non è
una grande idea perché potrebbe finire in tragedia o in farsa
con una sorprendente e inequivocabile dichiarazione: “Io sono
una donna sposata”. Una frase da romanzo della letteratura russa
o francese dell’ottocento, l’addio definitivo, ma sono uscito
da quasi tre giorni di terapia intensiva, non pensavo davvero di iniziare
un carteggio tra amanti, anche perché non lo siamo mai stati
neanche per scherzo. Era con l’istinto di sopravvivenza che stavo
flirtando in quel preciso momento. Mi spiace, forse ho sbagliato, non
è bello, ma per quanto fragile voglio avere io l’ultima
parola su tutto che poi, drammatizzando quel tanto, potrebbe esserla
veramente. Ho impiegato tre anni e ora dubito fortemente della mia sensibilità.
Ho impiegato tre anni abbondanti, più di mille giorni per capire
che - a cominciare da te che tante volte nelle lunghe notti insonni
aspettando con ansia le prime luci e il prelievo delle cinque e quaranta
ho sentito di avere al mio fianco, mi tenevi compagnia e non so come
riuscivamo a parlarci - tre lunghi anni per capire e ammettere che il
vostro dolore è perfino più grande del mio. “Perdiamo
tutto perché tutto rimane, tranne noi”. Ma anche per gli
altri tutto rimane tranne noi e perdono molto, qualcuno quasi tutto.
Ci voleva tanto per rendersene conto e godere insieme il dono di questa
ritrovata serenità?
Non ho alberi da abbracciare e allora stringo forte questa solida trave
in legno di castagno e le sue rughe profonde, la capriata che regge
da due secoli e mezzo questa casa carsica sull’altipiano, una
piccola casa in questa piccola Kriz, un bel posto per vivere e per morire.
A fianco della chiesa, si apre il cancello del camposanto. Si percorre
il breve vialetto di ghiaia fino al muretto di cinta, ci si alza in
punta di piedi e tra due cipressi tutto il golfo si dispiega e il mare,
tanto mare, si incurva all’orizzonte. E viene alla mente il giardino
della memoria, il cimitero acattolico di Capri che sembra in qualche
modo aver ispirato questo e in un batter d’occhio si finisce per
smarrirsi nell’ aria azzurra e profonda, che non mostra nulla,
che non è da nessuna parte, che non ha fine.
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