Gennaio 2021
   IN EXTREMIS    
 
Aprile 1975
Sarà rimasto semplice progetto o da qualche parte è stata poi realizzata la sala cinema perfetta? L’idea era di disporre ad anfiteatro le poltroncine, coperte da un pesante tessuto rigorosamente nero. A lato dei braccioli, due pannelli, sempre neri. In sostanza, l’isolamento totale, l’assenza di distrazioni, un intimo tête-à-tête con lo schermo. Di certo, The Act of Seeing with One’s Own Eyes di Stan Brackhage non ha bisogno di tutti questi accorgimenti per mantenere viva l’attenzione. Siamo nel 1971 e per poco più di mezz’ora veniamo ospitati in una sala per autopsie nella quale vengono esaminate le diverse parti del corpo, compreso il capo, compreso il cranio. La cute e sottocute incise con il bisturi per scollare il cuoio capelluto, la cavità toracica svuotata di tutti gli organi che si accumulano l’uno accanto all’altro in appositi lavabi, il cartellino con le generalità appeso all’alluce. Non c’è sonoro neppure quando al termine un chirurgo, chino su un dittafono, il camice insanguinato, in raggelante solitudine, riferisce i risultati dell’approfondita analisi. Siamo all’interno di un cineclub in una piazzetta di Brera e siamo stati avvertiti prima della proiezione dei contenuti della pellicola, scontato warning che invita i più impressionabili a lasciare la sala. Non ricordo se a seguire fosse in programma Sirius remembered, che racconta il processo di putrefazione dell’amato cane, o Window, water, baby, moving, che documenta la nascita della prima figlia del regista. Non si tratta di gratuite provocazioni, come si sarebbe portati a pensare. Il lavoro sulle immagini ferve di secondo in secondo, impone il suo ritmo, sorprende, toglie il respiro. Siamo spettatori di qualcosa di inaspettato, mai visto prima e lo vediamo “con i nostri propri occhi”. I lavori di Brackhage, decine di film nei quali spesso la pellicola viene graffiata, dipinta a mano, trattata con acidi, pratiche che saranno considerate la causa del suo tumore alla vescica, relegano la celebrata filmografia di Warhol nella sua dimensione di trovate creative di un grafico pubblicitario particolarmente fortunato. Frequentavo quel cineclub anche perché speravo di incontrare una compagna d’università con la quale avevo condiviso un paio di esami. Anche lei lo frequentava, molto meno di quanto desiderassi. Fingevamo stupore e sorpresa quando ci ritrovavamo insieme - che combinazione! - e nessuno poteva incolparci di nulla, a meno che accarezzarsi con lo sguardo, esercizio che una coppia mancina svolge ad occhi chiusi, porti alla perdizione. Galeotta era la comune passione per il new american cinema e quello sperimentale in genere: un alibi di ferro. Quando lei si spostò a Londra, sapevo che non ci saremmo più rivisti, né sentiti. “Una storia d’amore, per essere eterna, non deve mai cominciare”. Oscar Wilde, presumo. Non dovrebbe mai finire con un tumore allo stomaco, prima dei cinquant’anni. Non era neanche un granché l’osteopata che mi parlò anni dopo di quella sua paziente scomparsa, come fosse ordinaria amministrazione, mentre ero disteso, indifeso, molto arreso, su un lettino neanche un granché ergonomico.

 

 

   
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