Sarà rimasto semplice progetto o da
qualche parte è stata poi realizzata la sala cinema perfetta? L’idea
era di disporre ad anfiteatro le poltroncine, coperte da un pesante tessuto
rigorosamente nero. A lato dei braccioli, due pannelli, sempre neri. In
sostanza, l’isolamento totale, l’assenza di distrazioni, un
intimo tête-à-tête con lo schermo. Di certo, The Act
of Seeing with One’s Own Eyes di Stan Brackhage non ha bisogno di
tutti questi accorgimenti per mantenere viva l’attenzione. Siamo
nel 1971 e per poco più di mezz’ora veniamo ospitati in una
sala per autopsie nella quale vengono esaminate le diverse parti del corpo,
compreso il capo, compreso il cranio. La cute e sottocute incise con il
bisturi per scollare il cuoio capelluto, la cavità toracica svuotata
di tutti gli organi che si accumulano l’uno accanto all’altro
in appositi lavabi, il cartellino con le generalità appeso all’alluce.
Non c’è sonoro neppure quando al termine un chirurgo, chino
su un dittafono, il camice insanguinato, in raggelante solitudine, riferisce
i risultati dell’approfondita analisi. Siamo all’interno di
un cineclub in una piazzetta di Brera e siamo stati avvertiti prima della
proiezione dei contenuti della pellicola, scontato warning che invita
i più impressionabili a lasciare la sala. Non ricordo se a seguire
fosse in programma Sirius remembered, che racconta il processo di putrefazione
dell’amato cane, o Window, water, baby, moving, che documenta la
nascita della prima figlia del regista. Non si tratta di gratuite provocazioni,
come si sarebbe portati a pensare. Il lavoro sulle immagini ferve di secondo
in secondo, impone il suo ritmo, sorprende, toglie il respiro. Siamo spettatori
di qualcosa di inaspettato, mai visto prima e lo vediamo “con i
nostri propri occhi”. I lavori di Brackhage, decine di film nei
quali spesso la pellicola viene graffiata, dipinta a mano, trattata con
acidi, pratiche che saranno considerate la causa del suo tumore alla vescica,
relegano la celebrata filmografia di Warhol nella sua dimensione di trovate
creative di un grafico pubblicitario particolarmente fortunato. Frequentavo
quel cineclub anche perché speravo di incontrare una compagna d’università
con la quale avevo condiviso un paio di esami. Anche lei lo frequentava,
molto meno di quanto desiderassi. Fingevamo stupore e sorpresa quando
ci ritrovavamo insieme - che combinazione! - e nessuno poteva incolparci
di nulla, a meno che accarezzarsi con lo sguardo, esercizio che una coppia
mancina svolge ad occhi chiusi, porti alla perdizione. Galeotta era la
comune passione per il new american cinema e quello sperimentale in genere:
un alibi di ferro. Quando lei si spostò a Londra, sapevo che non
ci saremmo più rivisti, né sentiti. “Una storia d’amore,
per essere eterna, non deve mai cominciare”. Oscar Wilde, presumo.
Non dovrebbe mai finire con un tumore allo stomaco, prima dei cinquant’anni.
Non era neanche un granché l’osteopata che mi parlò
anni dopo di quella sua paziente scomparsa, come fosse ordinaria amministrazione,
mentre ero disteso, indifeso, molto arreso, su un lettino neanche un granché
ergonomico. |