Il compito è un diario di Viaggio in
Dalmazia, fine aprile, primi di maggio. Da un anno, Franco Fortini, “cattivo
maestro” anche per la sinistra più sciocca, è il nostro
professore di italiano e storia. Al mio lavoro dà un misero 6+,
scritto minuscolo in rosso, in alto a destra. “Sembra interessato
solo a se stesso. Mi piace contro le esibizioni la banalità; e
credo che nessuno divenga adulto finché non ha fatto i conti con
le immagini paterne. E qui c’è più Narciso che rivoluzione.
Troppa sicurezza di sé, ossia debolezza di fondo”. Devo avere
passato il segno, se mi viene chiesto di “spiegarmi meglio a voce,
anche subito”. Mio padre è morto un paio d’anni prima,
ho tre fratelli minori, le prime ristrettezze economiche restringono anche
i miei orizzonti. Non ricordo un colloquio chiarificatore, ma nel mio
diario ci sono più accenni a un lungo viaggio in Oriente dell’anno
prima con un gruppo che aveva lasciato polemicamente una parrocchia milanese
e si era avvicinato ai valdesi. Naturalmente solo molti anni dopo lessi
della sua richiesta di battesimo nella chiesa valdese di Firenze, durante
una grave malattia. Per questo pensava fossi la persona giusta quando
mi fece una richiesta così inusuale? Cercava e non trovava una
Vulgata (traduzione in latino della Bibbia dall’antica versione
greca ed ebraica). Ne parlai a casa e mia mamma, che sperava in un ritorno
del figliol prodigo all’ovile, una sera mi fece trovare a cena il
giovane prete della parrocchia e il volume in questione. Lo portai all’indomani
nella sua casa di via Legnano, ma sapevo che prima o poi avrei dovuto
restituirlo. Il giovane prete ora insegnava in un seminario e teneva molto
alla sua Vulgata. Venne quel momento e, non mascherando la delusione,
Fortini me la fece avere in portineria. Tempo dopo, capitai su uno dei
testi che l’amico Cesare Cases gli dedica nelle Confessioni di un
ottuagenario. “Credo che fosse già morto quando una notte
accesi la tv e vidi inquadrato il ben noto volto. Era tutta la tradizione
italiana che si compendiava nella voce profonda di questo ebreo fiorentino”.
Quella voce per me non recitava una sestina petrarchesca: avanzando e
arretrando tra i nostri banchi, scandiva le Ceneri di Gramsci. Come a
volte, con un esercizio acrobatico ritrovava il brano che cercava in un
volume aprendolo a caso, ricordo che la campanella di fine lezione risuonò
esattamente allo “scrosciano le saracinesche dei garage di schianto”,
ma non gli impedì di continuare fino all’ultimo verso. Apprezzare
la perfetta sincronia era il massimo che potevo permettermi. Che ne sapevo,
cosa ne sapevamo noi, allora, delle Ceneri e dei Quaderni di Gramsci,
del Cimitero degli Inglesi, delle feroci polemiche tra gli intellettuali,
di Pasolini poeta, del fratello partigiano “solo tra le foglie secche,
i caldi fieni di un bosco delle prealpi / nel dolore e la pace d’una
interminabile Domenica...”. Torno ancora una volta sulle pagine
conclusive de I cani del Sinai. Si leggono ogni volta di più come
un testamento. Riesce difficile arrivare fino alle ultime righe. Forse
la vista si è fatta meno acuta, forse sono le vertigini della storia. |