Gennaio 2021
   IN EXTREMIS    
 
Maggio 1969
Il compito è un diario di Viaggio in Dalmazia, fine aprile, primi di maggio. Da un anno, Franco Fortini, “cattivo maestro” anche per la sinistra più sciocca, è il nostro professore di italiano e storia. Al mio lavoro dà un misero 6+, scritto minuscolo in rosso, in alto a destra. “Sembra interessato solo a se stesso. Mi piace contro le esibizioni la banalità; e credo che nessuno divenga adulto finché non ha fatto i conti con le immagini paterne. E qui c’è più Narciso che rivoluzione. Troppa sicurezza di sé, ossia debolezza di fondo”. Devo avere passato il segno, se mi viene chiesto di “spiegarmi meglio a voce, anche subito”. Mio padre è morto un paio d’anni prima, ho tre fratelli minori, le prime ristrettezze economiche restringono anche i miei orizzonti. Non ricordo un colloquio chiarificatore, ma nel mio diario ci sono più accenni a un lungo viaggio in Oriente dell’anno prima con un gruppo che aveva lasciato polemicamente una parrocchia milanese e si era avvicinato ai valdesi. Naturalmente solo molti anni dopo lessi della sua richiesta di battesimo nella chiesa valdese di Firenze, durante una grave malattia. Per questo pensava fossi la persona giusta quando mi fece una richiesta così inusuale? Cercava e non trovava una Vulgata (traduzione in latino della Bibbia dall’antica versione greca ed ebraica). Ne parlai a casa e mia mamma, che sperava in un ritorno del figliol prodigo all’ovile, una sera mi fece trovare a cena il giovane prete della parrocchia e il volume in questione. Lo portai all’indomani nella sua casa di via Legnano, ma sapevo che prima o poi avrei dovuto restituirlo. Il giovane prete ora insegnava in un seminario e teneva molto alla sua Vulgata. Venne quel momento e, non mascherando la delusione, Fortini me la fece avere in portineria. Tempo dopo, capitai su uno dei testi che l’amico Cesare Cases gli dedica nelle Confessioni di un ottuagenario. “Credo che fosse già morto quando una notte accesi la tv e vidi inquadrato il ben noto volto. Era tutta la tradizione italiana che si compendiava nella voce profonda di questo ebreo fiorentino”. Quella voce per me non recitava una sestina petrarchesca: avanzando e arretrando tra i nostri banchi, scandiva le Ceneri di Gramsci. Come a volte, con un esercizio acrobatico ritrovava il brano che cercava in un volume aprendolo a caso, ricordo che la campanella di fine lezione risuonò esattamente allo “scrosciano le saracinesche dei garage di schianto”, ma non gli impedì di continuare fino all’ultimo verso. Apprezzare la perfetta sincronia era il massimo che potevo permettermi. Che ne sapevo, cosa ne sapevamo noi, allora, delle Ceneri e dei Quaderni di Gramsci, del Cimitero degli Inglesi, delle feroci polemiche tra gli intellettuali, di Pasolini poeta, del fratello partigiano “solo tra le foglie secche, i caldi fieni di un bosco delle prealpi / nel dolore e la pace d’una interminabile Domenica...”. Torno ancora una volta sulle pagine conclusive de I cani del Sinai. Si leggono ogni volta di più come un testamento. Riesce difficile arrivare fino alle ultime righe. Forse la vista si è fatta meno acuta, forse sono le vertigini della storia.
 

 

   
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