Dividevamo molte delle nostre serate tra due
cineclub. Poi c’erano i cosiddetti cinéma d’art et
d’essai. Quasi sempre in tre, insieme abbiamo visto almeno un centinaio
di pellicole. Certo a Parigi sarebbe stato tutto più semplice:
in una sola sala se ne potevano vedere quattro o cinque di pellicole,
una dietro l’altra, senza soluzione di continuità. Uno dei
due cineclub era gestito da una specie di collettivo. Si prendevano molto
sul serio: il cinema era una fede e loro i missionari. Ma anche il mio
amico A. - ora che l’ho sentito dopo più di trent’anni
ne ho avuto la conferma - ha da sempre un serio programma: la vita va
presa per il culo. Ama il witz, sa prendere in giro e anche prendersi
in giro. Siamo già a due passi dal nostro cineclub, dopo una cena
veloce ed economica.
Potremmo arrivare in tempo per il programma serale, ma lui va verso una
cabina telefonica, infila il gettone, chiama i missionari pronti a dare
il via alla funzione. “Scusate. Dobbiamo prendere il caffè,
ma non vorremmo perdere l’inizio del film. Potreste per piacere
ritardare la proiezione di cinque, dieci minuti?”. Non è
uno scherzo telefonico, non c’è nulla di inventato. E’
la realtà che diventa surreale. Pochi giorni prima in una pizzeria,
con la massima serietà e sfoggiando un eloquio da principe del
foro ha messo in guardia il proprietario sul conto appena richiesto. Non
essendoci pane o grissini in tavola, non si azzardasse a infrangere non
so quale legge conteggiando tre coperti. Era andata bene, poteva finire
male. Ho lavorato tre anni con lui in una rivista specializzata, sognando
quel tesserino da giornalisti professionisti che apriva tutte le porte.
Aveva costruito un segnaposto, un prisma triangolare e su ognuna delle
tre facce c’era una scritta. Sono in sciopero. Sto per scendere
in sciopero. Sono al momento indeciso se scendere o non scendere in sciopero.
Quando penso allo slogan più iconico, più disruptive del
maggio francese che mi ha ossessionato perché così distante
dalla mia vita vissuta, penso a A. Non lavorare mai: in lui le parole
si sono fatte carne. Ha fatto cento lavori, sempre a modo suo. Senza pensare
alla carriera, vendere la sua libertà, esercitare alcun potere.
Perennemente altrove.
Vive con una minima pensione sociale in una casa occupata. Esistono ancora
case occupate in una città dove si offre in affitto a giovani studenti
una specie di soppalco a settecento euro al mese? “Sì, ma
cosa hai fatto della tua vita negli ultimi trentacinque anni?”,
insisto. Che stupida domanda. Ha raccolto mele, dato una mano a un gelataio,
fatto l’istruttore di nuoto, l’elettricista, l’idraulico,
il meccanico e l’aiuto falegname, l‘intervistatore per le
ricerche di mercato, il camionista e l’aiuto cuoco, il giornalista,
il discografico, il fattorino, lo spazzacamino, l’assistente a un
ciclista quasi gratis. Io sempre il pubblicitario di merda, come mi apostrofava
scherzosamente in quegli anni caldi. Laureato al Politecnico in Architettura,
ha vissuto prima in Venezuela e poi a lungo a Barcellona, cercando di
esportare il successo di una fortunata rivista di annunci gratuiti. Una
sera mi chiese di accompagnarlo perché doveva fare una commissione.
Era la calda estate del 1978. Barcellona non era ancora la città
invasa da decine di milioni di turisti entusiasti. La casa era isolata,
ma passavano a pochi metri i binari di una ferrovia per chissà
dove. Appena oltre i binari, intravvedevo nel buio un inquietante, non
identificato albero. Mi spiegò che doveva prendersi cura di quella
pianta di canapa perenne, da Guinness dei primati, su richiesta di amici
fuori città per un lungo periodo. Stavo lì irrigidito dalla
paura che sempre mi accompagnava in quel tempo. Ero in qualche modo responsabile
della famiglia e avevo appena accettato un lavoro che non amavo e insieme
un posto fisso, uno stipendio a crescere. Volevo andarmene subito, ma
mi sentivo rassicurato dalla presenza di A., dalla sua capacità
di sovvertire spudoratamente la logica, perfino in un interrogatorio in
qualche estación de policía. Si era fissato su quella storia
della pizza che o è con lo strutto o non merita di essere chiamata
pizza. Finalmente trovò il locale giusto. Volle provarla, entrò
da solo e se ne uscì con il disco piegato a metà. Provò
ad addentarla così, sui due piedi. Lo strutto bollente colava giù
trascinando con sé il sugo di pomodoro. La chiazza fumante si allargava
sull’asfalto nella tarda serata già invernale. Era cibo per
la strada, prima che il cibo di strada diventasse una moda. |