Gennaio 2021
   IN EXTREMIS    
 
Ottobre 1978
Dividevamo molte delle nostre serate tra due cineclub. Poi c’erano i cosiddetti cinéma d’art et d’essai. Quasi sempre in tre, insieme abbiamo visto almeno un centinaio di pellicole. Certo a Parigi sarebbe stato tutto più semplice: in una sola sala se ne potevano vedere quattro o cinque di pellicole, una dietro l’altra, senza soluzione di continuità. Uno dei due cineclub era gestito da una specie di collettivo. Si prendevano molto sul serio: il cinema era una fede e loro i missionari. Ma anche il mio amico A. - ora che l’ho sentito dopo più di trent’anni ne ho avuto la conferma - ha da sempre un serio programma: la vita va presa per il culo. Ama il witz, sa prendere in giro e anche prendersi in giro. Siamo già a due passi dal nostro cineclub, dopo una cena veloce ed economica.
Potremmo arrivare in tempo per il programma serale, ma lui va verso una cabina telefonica, infila il gettone, chiama i missionari pronti a dare il via alla funzione. “Scusate. Dobbiamo prendere il caffè, ma non vorremmo perdere l’inizio del film. Potreste per piacere ritardare la proiezione di cinque, dieci minuti?”. Non è uno scherzo telefonico, non c’è nulla di inventato. E’ la realtà che diventa surreale. Pochi giorni prima in una pizzeria, con la massima serietà e sfoggiando un eloquio da principe del foro ha messo in guardia il proprietario sul conto appena richiesto. Non essendoci pane o grissini in tavola, non si azzardasse a infrangere non so quale legge conteggiando tre coperti. Era andata bene, poteva finire male. Ho lavorato tre anni con lui in una rivista specializzata, sognando quel tesserino da giornalisti professionisti che apriva tutte le porte. Aveva costruito un segnaposto, un prisma triangolare e su ognuna delle tre facce c’era una scritta. Sono in sciopero. Sto per scendere in sciopero. Sono al momento indeciso se scendere o non scendere in sciopero. Quando penso allo slogan più iconico, più disruptive del maggio francese che mi ha ossessionato perché così distante dalla mia vita vissuta, penso a A. Non lavorare mai: in lui le parole si sono fatte carne. Ha fatto cento lavori, sempre a modo suo. Senza pensare alla carriera, vendere la sua libertà, esercitare alcun potere. Perennemente altrove.
Vive con una minima pensione sociale in una casa occupata. Esistono ancora case occupate in una città dove si offre in affitto a giovani studenti una specie di soppalco a settecento euro al mese? “Sì, ma cosa hai fatto della tua vita negli ultimi trentacinque anni?”, insisto. Che stupida domanda. Ha raccolto mele, dato una mano a un gelataio, fatto l’istruttore di nuoto, l’elettricista, l’idraulico, il meccanico e l’aiuto falegname, l‘intervistatore per le ricerche di mercato, il camionista e l’aiuto cuoco, il giornalista, il discografico, il fattorino, lo spazzacamino, l’assistente a un ciclista quasi gratis. Io sempre il pubblicitario di merda, come mi apostrofava scherzosamente in quegli anni caldi. Laureato al Politecnico in Architettura, ha vissuto prima in Venezuela e poi a lungo a Barcellona, cercando di esportare il successo di una fortunata rivista di annunci gratuiti. Una sera mi chiese di accompagnarlo perché doveva fare una commissione. Era la calda estate del 1978. Barcellona non era ancora la città invasa da decine di milioni di turisti entusiasti. La casa era isolata, ma passavano a pochi metri i binari di una ferrovia per chissà dove. Appena oltre i binari, intravvedevo nel buio un inquietante, non identificato albero. Mi spiegò che doveva prendersi cura di quella pianta di canapa perenne, da Guinness dei primati, su richiesta di amici fuori città per un lungo periodo. Stavo lì irrigidito dalla paura che sempre mi accompagnava in quel tempo. Ero in qualche modo responsabile della famiglia e avevo appena accettato un lavoro che non amavo e insieme un posto fisso, uno stipendio a crescere. Volevo andarmene subito, ma mi sentivo rassicurato dalla presenza di A., dalla sua capacità di sovvertire spudoratamente la logica, perfino in un interrogatorio in qualche estación de policía. Si era fissato su quella storia della pizza che o è con lo strutto o non merita di essere chiamata pizza. Finalmente trovò il locale giusto. Volle provarla, entrò da solo e se ne uscì con il disco piegato a metà. Provò ad addentarla così, sui due piedi. Lo strutto bollente colava giù trascinando con sé il sugo di pomodoro. La chiazza fumante si allargava sull’asfalto nella tarda serata già invernale. Era cibo per la strada, prima che il cibo di strada diventasse una moda.
   

 

   
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