‘Una nazione rimane viva quando la
sua cultura rimane viva’. La frase incisa sulla pietra si trova
all’ingresso del Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul.
Non una pietra qualunque: è il ricercato e prezioso lapislazzuli,
il “colore più perfetto di tutti i colori”. È
curioso che legga di questa pietra proprio nel giorno nel quale i talebani
annunciano attraverso il loro leader supremo una decisione irrevocabile:
“Fustigheremo le donne che hanno commesso adulterio. Le lapideremo
in pubblico. Potete chiamarla violazione dei diritti delle donne, perché
è in conflitto con i vostri principi democratici. Ma io rappresento
Allah e voi rappresentate Satana”.
Non facevano parte di quella cultura i Buddha di Bamiyan, scolpiti nella
roccia secoli prima, interamente demoliti nel nuovo millennio in una
decina di giorni? Si saliva fin sotto alle due statue con una scala
in ferro e dal basso in alto si poteva godere tutta la loro imponenza.
Ma era dall’altra parte della valle che veniva messa in risalto
dalla distanza la loro bellezza. C’era una terrazza alla quale
affacciarsi e un trio di musicisti con i loro strumenti. Avevamo con
noi un registratore professionale. Suonarono a lungo, i loro occhi fieri
resi ancora più intensi dal kajal. Non sapevo allora che secondo
il Corano ogni forma di musica è considerata un pericolo perché
distrae dalla preghiera. Non è il Corano, ma il concetto è
ancora più chiaro. “Allah potente e maestoso mi ha inviato
come guida misericordiosa presso i fedeli e mi ha ordinato di fare in
modo che si sbarazzassero di strumenti musicali, flauti, archi, crocifissi,
e di tutto ciò di cui si circondano quando, prima dell’Islam,
vivevano nell’ignoranza. Nel Giorno della Resurrezione, Allah
verserà piombo fuso dentro le orecchie di chiunque sieda ascoltando
musica”. Nessuno su quella terrazza sembrava temere il castigo
divino. Quindici anni prima del nostro viaggio, avventurarsi in un paese
come l’Afghanistan doveva sembrare un’idea da mad dogs &
englishmen. Tre amici da Cambridge e la loro Land Rover d’epoca
lo attraversano in lungo e in largo per tre settimane, ogni giorno più
entusiasti. Afghanistan at a time of peace è il titolo del libretto
che documenta la loro esperienza. Dopo il benvenuto del governo di Kabul,
si muovono in libertà, campeggiano lungo le rive dello Zaefeh,
trovano sulla loro strada gente felice di ospitarli e di illustrare
usi e costumi. Così Mahif, il pescatore, può mostrare
la sua abilità nelle acque blu del fiume, lanciando la rete che
non mancherà di fornire, in una sola mezz’ora, materia
prima per una indimenticabile cena di gruppo.
Sfoglio il libretto e mi soffermo sull’immagine di Mahif che regge
trionfante una coppia di pesci. E guardandolo negli occhi gli chiedo
perdono e mi faccio una domanda tanto ingenua quanto profonda. Perché
non abbiamo lasciato in pace l’Afghanistan?
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