Gennaio 2021
   IN EXTREMIS    
 
Settembre 1969

‘Una nazione rimane viva quando la sua cultura rimane viva’. La frase incisa sulla pietra si trova all’ingresso del Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul. Non una pietra qualunque: è il ricercato e prezioso lapislazzuli, il “colore più perfetto di tutti i colori”. È curioso che legga di questa pietra proprio nel giorno nel quale i talebani annunciano attraverso il loro leader supremo una decisione irrevocabile: “Fustigheremo le donne che hanno commesso adulterio. Le lapideremo in pubblico. Potete chiamarla violazione dei diritti delle donne, perché è in conflitto con i vostri principi democratici. Ma io rappresento Allah e voi rappresentate Satana”.
Non facevano parte di quella cultura i Buddha di Bamiyan, scolpiti nella roccia secoli prima, interamente demoliti nel nuovo millennio in una decina di giorni? Si saliva fin sotto alle due statue con una scala in ferro e dal basso in alto si poteva godere tutta la loro imponenza. Ma era dall’altra parte della valle che veniva messa in risalto dalla distanza la loro bellezza. C’era una terrazza alla quale affacciarsi e un trio di musicisti con i loro strumenti. Avevamo con noi un registratore professionale. Suonarono a lungo, i loro occhi fieri resi ancora più intensi dal kajal. Non sapevo allora che secondo il Corano ogni forma di musica è considerata un pericolo perché distrae dalla preghiera. Non è il Corano, ma il concetto è ancora più chiaro. “Allah potente e maestoso mi ha inviato come guida misericordiosa presso i fedeli e mi ha ordinato di fare in modo che si sbarazzassero di strumenti musicali, flauti, archi, crocifissi, e di tutto ciò di cui si circondano quando, prima dell’Islam, vivevano nell’ignoranza. Nel Giorno della Resurrezione, Allah verserà piombo fuso dentro le orecchie di chiunque sieda ascoltando musica”. Nessuno su quella terrazza sembrava temere il castigo divino. Quindici anni prima del nostro viaggio, avventurarsi in un paese come l’Afghanistan doveva sembrare un’idea da mad dogs & englishmen. Tre amici da Cambridge e la loro Land Rover d’epoca lo attraversano in lungo e in largo per tre settimane, ogni giorno più entusiasti. Afghanistan at a time of peace è il titolo del libretto che documenta la loro esperienza. Dopo il benvenuto del governo di Kabul, si muovono in libertà, campeggiano lungo le rive dello Zaefeh, trovano sulla loro strada gente felice di ospitarli e di illustrare usi e costumi. Così Mahif, il pescatore, può mostrare la sua abilità nelle acque blu del fiume, lanciando la rete che non mancherà di fornire, in una sola mezz’ora, materia prima per una indimenticabile cena di gruppo.
Sfoglio il libretto e mi soffermo sull’immagine di Mahif che regge trionfante una coppia di pesci. E guardandolo negli occhi gli chiedo perdono e mi faccio una domanda tanto ingenua quanto profonda. Perché non abbiamo lasciato in pace l’Afghanistan?

 

 

   
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